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Due chiacchiere su una panchina: intervista a Jacopo Valentinotti

“L’oggetto di ambito pallavolistico a cui penso mi direbbe sicuramente: – Pino, sei una testa dura! -“

  • Quale squadra alleni, da quanti anni lavori con la Pallavolo Gonzaga, come e quando hai incontrato per la prima volta la pallavolo, se sei stato giocatore (così come nel caso tu non abbia mai giocato) come pensi influisca sul tuo ruolo di allenatore l’esperienza in campo.

Alleno l’Under15 e Under17 maschile di Eccellenza, faccio anche il preparatore atletico per il settore maschile. Sono nella Pallavolo Gonzaga Milano ormai da quattordici anni, avendo iniziato a giocare in questa Società. Ho cambiato realtà solo l’anno scorso, andando a giocare nella serie D di Opera.

Ho incontrato la Pallavolo Gonzaga tramite mia zia e mia mamma, che erano all’interno dell’Associazione. All’epoca non sapevo quale sport praticare e la pallavolo mi ha subito appassionato. Nel corso degli anni che ho passato qui, c’è stata un’evoluzione interna importante, sia a livello di risultati che di organizzazione, con ampliamento di staff e numero di atleti.

Penso che essere anche giocatore sia un vantaggio, perché permette di trasmettere la passione e le esperienze vissute ai ragazzi, che possono rivelarsi fondamentali in certi momenti della gara o dell’allenamento in cui è necessario il confronto con un’esperienza analoga di chi ci è già passato.

  • Qual è il fondamentale più difficile da insegnare? Qual è quello più difficile da allenare?

Il più difficile da insegnare penso sia la difesa; la pallavolo è uno sport “infame” perché a una grande percentuale di tecnica si integra un’importante dose di istinto e solidità psicologica. In difesa in particolare, soprattutto salendo di livello, è necessario mettere tutti se stessi per riuscire ad essere efficaci. Il più difficile da allenare è il muro, perché essendo la pallavolo uno sport situazionale, le alzate, gli attaccanti e i ritmi di gioco sono sempre diversi, e non è facile trovare il punto di incontro tra insegnamento della tecnica e allenamento per rendere il muro efficace.

  • Quali caratteristiche ricerchi in un giocatore/trice?

Innanzitutto deve essere un palleggiatore. Oltre che l’attitudine per la coordinazione, in un giocatore guardo la capacità di comunicare con la squadra, di essere un trascinatore nei momenti giusti ed essere capace di allentare la tensione scherzando quando è necessario. Penso però che nessun allenatore saprebbe dare una risposta universale, ad alti livelli la figura in cui identifico il giocatore ideale è De Cecco.

  • Qual è il tuo esercizio preferito? Pensi corrisponda al preferito delle tue atlete?

L’esercizio che preferisco potrebbe essere il “bagherone”; forse non è classificabile come esercizio, ma lo apprezzo per la carica emotiva che pretende, allena l’agonismo ed è al tempo stesso divertente e premiante per i ragazzi dopo un weekend di gare.

  • Come pensi ti veda qualcuno di esterno al mondo pallavolistico quando affermi di essere allenatore?

Dall’esterno un allenatore penso sia visto come qualcuno in grado di comprendere i ragazzi, di adattarsi a situazioni sempre diverse e di trovare nel proprio modo di porsi l’equilibrio tra la propria personalità e quella della squadra. Forse è un ruolo sottovalutato finché non si giunge ad alti livelli, anche considerando che il nostro sport non viene messo molto in rilievo dai media. Credo sia una figura in generale rispettata, ma non ammirata.

  • Qual è la tua ambizione sportiva più grande?

Se mi avessi fatto questa domanda un paio di anni fa, giocare al livello più alto possibile come una Serie B sarebbe stata la risposta. In effetti, con anche un po’ di fortuna, ho potuto giocare nella Serie B della pallavolo Gonzaga la scorsa stagione. Tuttavia le dinamiche stanno cambiando a partire da questa stagione sportiva, e si aprono anche nuove possibilità, per cui l’ambizione maggiore da allenatore sarebbe arrivare in una squadra di livello nazionale, sia giovanile che senior.

  • Ci racconteresti l’episodio o aneddoto più divertente ti sia capitato in palestra?

Ci sono aneddoti che il pubblico non può conoscere, perché nascono nella squadra e al suo interno rimangono, sono un piccolo tesoro privato. Uno momento di alta tensione intellettuale però voglio raccontarlo: a inizio di un allenamento, la squadra inizia a muoversi con qualche giro di corsa e andature. Uno degli atleti si ferma dopo poco e guardando l’allenatore lamenta un dolore ai piedi. L’allenatore abbassa lo sguardo sui piedi e realizza che le scarpe erano state indossate al contrario, la sinistra allacciata al piede destro e viceversa. Senza nessun tipo di sospetto da parte del ragazzo.

  • Scegli un oggetto presente in palestra durante le gare: in cinque parole, cosa direbbe di te?

L’oggetto di ambito pallavolistico a cui penso mi direbbe sicuramente: “Pino, sei una testa dura”. Parlo del ball-catcher, che mi è caduto in testa almeno un paio di volte nel montarlo. Ma sono ancora vivo, più o meno.

  • Se fossi un cibo, nel momento in cui entri in palestra quale saresti? E se fossi un’emozione?

Se fossi un cibo sarei del cioccolato fondente: a volte sono un po’ amaro, ma in fondo il retrogusto è sempre buono. Mi percepisco tranquillo in palestra, sia per la mia figura di secondo allenatore che pretende di mediare tutto il macello che combina il primo allenatore, sia per la relazione che ho con gli atleti. Credo sia importante saper stemperare momenti di pressione o eccessivamente pesanti. Quindi, varcata la porta della palestra, sento di essere la Serenità.

Ringrazio Jacopo, “Pino”, per la generosità e la dedizione che traspare anche dalle sue parole.

A presto

[Giacomo De Martino ]